
La "sentenza", adesso. «Se fosse riuscito a passare davanti a un’agenzia di scommesse come faceva col pallone, avrebbe fatto miliardi e (altra versione) cento presenze in nazionale». Il gioco di parole, imperniato sul verbo "to pass", in inglese funziona di più, anzi descrive al meglio la quintessenza del maverick Anni 70: Stan "The Man" Bowles. Per sapere cos’erano questi cavalli pazzi, i calciatori genialoidi e "maledetti" tanto cari al football britannico dell’epoca, non scomodatevi a cercarne la definizione sull’Oxford English Reference Dictionary. Dopo la prima accezione di «capo di bestiame non marchiato», trovereste quella "ufficiale" di «persona indipendente e fuori degli schemi» cioè poco allineata e per nulla allineabile. Non vi sono riferimenti al talento o al successo né tanto meno al calcio. Anche se, come ha scritto Steve Bidmead in Bowles, documentata e piacevole biografia da lui dedicata al Nostro, «non si ha traccia di mavericks fra giocatori di badminton o negli ostacolisti». Solo un caso? Difficile. Stan nasce la vigilia di Natale 1948, due minuti prima della mezzanotte, a Collyhurst, duro sobborgo di Manchester e cresce a Moston, che è pure peggio. Per capirci: "Crimechester" è, fra le grandi città britanniche, quella con il maggiore tasso di criminalità, perlomeno stando i dati forniti dall’Home Office, il locale Ministero degli Interni, e dall’Istituto nazionale di statistica. Ebbene, Moston è considerata terra di banditi anche per gli elevati standard mancuniani. E se per compagni di "giochi" hai la Quality Street Gang (di cui la polizia nega l’esistenza) e i Whiz Mob, e ti fanno sporadiche visitine lo Special Branch (l’esercito per la sicurezza nazionale) e la Met (colloquiale per Metropolitan Police Service) perché rubare furgoni è un modo troppo realistico di fare a guardie e ladri, il tuo destino magari non è segnato ma un’impronta ce l’ha. Anche se «la mia politica è sempre stata quella di chiudere un occhio e tenere la bocca chiusa».
Nemmeno casa Bowles deve essere un eden se alla domanda del prete cattolico «di che confessione siete?» posta dallo spaesato ragazzino e da questi girata alla madre, segue dal piano di sopra un «non lo so, figliolo. Devi aspettare che torni tuo padre». Quasi fisiologico che Stan, vicino di casa dei futuri Red Devils Brian Kidd e Nobby Stiles, viva di pane, calcio e, nel meno peggio dei casi, scommesse, virus beccato a 15 anni vincendo 24 sterline. Delle possibili tre strade, football, boxe, malavita, il fato gli scarta la seconda se non altro per il torace. Col pallone invece il figlio del lavavetri ci sa fare e scala alla svelta la trafila nelle giovanili del Manchester City, nella cui prima squadra Joe Mercer lo fa debuttare nel settembre 1967 in Coppa di Lega contro il Leicester City. Piede mancino che ricama, Bowles lo ripaga con una fantastica doppietta. Ma in campionato il contributo dell’enfant du pays alla squadra poi campione d’Inghilterra è trascurabile. Il ragazzo frequenta brutte compagnie e al club la cosa non aggrada (storiche un paio di accapigliate con il vice-Mercer, Malcolm Allison, una delle quali davanti ai clienti del night "The Cabaret"). È una testa calda, ma quella testa pare intenzionato a metterla a posto quando, due anni dopo, sposa la fidanzatina dei tempi della scuola, Ann, che gli darà tre figli: Andrea, Carl e Tracey. Secondo voi dura? Ma dai… Il temperamento ribelle, le sue attività fuori del campo e la richiesta di un nuovo contratto fatta al compimento del 21° anno di età, cui segue il rifiuto dell’aumento di 5 sterline a settimana, non vanno giù alla dirigenza, che nell’agosto ’70, stufa di 2 reti in 17 gare spalmate su tre campionati, lo molla. «Sapevo che era finita, che non si poteva tornare indietro, così me ne tornai dai miei vecchi compari dei bassifondi di Manchester, dove facevo più soldi della miseria che prendevo al City. Smisi di allenarmi, tranne che per precipitarmi dai bookmaker per la corsa delle 14, del calcio non m’importava più». Infatti, nel prestito al Bury, finito anzitempo, il 5 settembre, dopo sole nove settimane (5 gare e zero gol), Stan dimostra di non essere cambiato e il suo futuro da pro sembra finito ancora prima di iniziare.
Quello stesso mese, gli concede una possibilità Ernie Tagg, il manager del Crewe Alexandra, club di quarta divisione, e risale a quel periodo nel South Chesire (e forse attribuibile all’allenatore) l’immortale epitaffio tecnico di cui sopra. Non a caso, Tagg – cui erano bastate un paio di partite per concedergli un anno di contratto – versava lo stipendio di Stan alla signora Bowles, cui il marito faceva rispondere al telefono che era malato per marcar visita salvo vedersi tirar giù dal letto da un Tagg fuori dalla grazia divina. Diciotto centri in 51 gare con i Railwaymen, una delle peggiori squadre del Paese, convincono Ian MacFarlane a portarselo, nell’ottobre ’71, per 12.000 sterline, al Carlisle United in 2nd Division come rimpiazzo di Bob Hatton, passato per 90 mila al Birmingham. L’impatto con Gresty Road è col botto (tripletta al Norwich), ma in undici mesi sotto “The Big Man”, Bowles raccoglie solo 36 presenze e 13 gol (33 e 12 in campionato, chiuso al quarto posto), escluso il Torneo Anglo-italiano del 1972, il primo vinto da un’italiana, la Roma. Nonostante le mattane, o forse anche per quelle, a Brunton Park lo ricordano ancora come uno dei più forti e, ovvio, più chiacchierati giocatori visti con la maglia dei Cumbrians. Il suo regalo natalizio alla tifoseria è la mirabile “hat-trick” nel 3-0 casalingo dei Blues al Norwich il 28 dicembre. Nasce allora la partnership con Chris Balderstone che, assieme alle ali Dennis Martin e a Bobby Owen, forma un centrocampo che in Division Two non ha eguali. Ma dall’arrivo, nell’agosto ’72, del nuovo manager Alan Ashman, per Stan si rompe qualcosa. Dopo l’anglo-italiano raccoglie solo 6 presenze, e quello che vale l’1-1 di Huddersfield, verso la fine del mese, è il suo ultimo gol con la maglia dello United. Due settimane dopo è al QPR di Gordon Jago, per 112.000 sterline, esborso-record per il club che mai aveva scollinato le sei cifre. A Sheperd’s Bush, resta sette anni, rimpiazzando nel cuore dei tifosi l’idolo e pari ruolo (in campo e fuori) Rodney Marsh – ceduto per 200 mila pounds al Man City, club che di Stan non aveva più voluto saperne – e già dimenticato sin dal debutto di Bowles, autore di un gol nel 3-0 in casa al Forest davanti a 12.528 folgorati da quel funambolo dalla chioma al vento, dal sinistro magico e dal carisma innato. Un colpo di fulmine che sulle gradinate di Loftus Road cambia istantaneamente i cori da «Rod-ney, Rod-ney» a «Stan-ley, Stan-ley». Nel ’74 a Jago subentra Dave Sexton, che ama più tener palla che liberarsene come se scottasse. Il primo a beneficiarne è Bowles, che nel giro di due anni, in coppia con la star Gerry Francis, trascina i Rangers a un punto da un titolo che se vinto avrebbe fatto storia e che andando al Liverpool è diventato normale amministrazione. E la stagione successiva, la prima dei Rangers in Europa, è capocannoniere (11 gol) di Coppa Uefa, torneo che per i suoi si arena nei quarti, 6-7 ai rigori contro l’AEK Atene (poi eliminato dalla Juventus futura vincitrice), dopo che erano state sommerse di reti Brann Bergen e Slovan Bratislava e domato a fatica il Colonia. Nel frattempo il 3 aprile ’74, Sir Alf Ramsey lo fa debuttare in nazionale nell’amichevole di Lisbona (0-0) contro il Portogallo. Per Bowles è l’inizio di un amore mai consumato. L’11 maggio al Ninian Park di Cardiff (2-0 al Galles) firma il suo unico gol con i “bianchi”. Quattro giorni dopo, a Wembley (2-0 all’Irlanda del Nord), viene sostituito con ignonimia e Ramsey non lo chiama più. E così fa il traghettatore Joe Mercer, ex del Man City, l’ultimo a stupirsi quando (leggenda o verità?) Bowles non si presenta a un raduno preferendo andare a White City, pista londinese per le corse dei cani. Perso sul filo di lana il campionato ’76, Bowles riconquista la nazionale. La seconda occasione gliela dà Don Revie nella gara di qualificazione mondiale contro l’Italia, il 17 novembre all’Olimpico di Roma. Il Ct azzurro Enzo Bearzot gli attacca alle caviglie Claudio Gentile e Stan non tocca palla. E quattro. Il quinto e ultimo “cap” è del 9 febbraio ’77, davanti ai 90.000 di Wembley, 0-2 dall’Olanda, amichevole che passerà alla storia per il «10» in pagella a Johan Cruijff. Per Stan, niente più polemiche come quella avuta con Emlyn "Crazy Horse" Hughes («Per il mio Paese giocherei anche gratis»): «Giusto, tu tieniti i Tre Leoni e i tuoi 200 testoni li prendo io (nella gestione-Revie i convocati beccavano 200 sterline a convocazione)».
Nel dicembre ’79, su raccomandazione dell’antico sodale Peter Taylor, Brian Clough si mette in testa una pazza idea: fare di quel riottoso purosangue il cavallo di punta del Nottingham Forest campione d’Europa. Nei piani, Stan doveva rimpiazzare l’anziano Archie Gemmill in una prima linea da sogno: (Trevor) Francis, John Robertson, Garry Birtles, Bowles e l’altra testa matta Charlie George, arrivato in prestito. Un progetto folle, appunto, perché come vice-Gemmill avrebbero fallito in tanti (dopo Bowles anche Jurgen Roeber e Raimondo Ponte) ma soprattutto perché, come ammesso da "Stan The Man" nell’omonima autobiografia, il rapporto mai nato con "Old Big ’Ead", il vecchio testone, era destinato a fallire dall’inizio: «Siamo partiti col piede sbagliato quando mi ha detto "voi cockneys (spregiativo per "coatti" londinesi) siete tutti uguali" e io, di rimando, "Mi scusi, ma io sono di Manchester"». Due personalità troppo forti per poter coesistere. E il rifiuto del giocatore di andare panchina per la finale di Coppa dei Campioni, il 28 maggio 1980 al Santiago Bernabéu di Madrid contro l’Amburgo, è il punto di non ritorno. Due mesi dopo, Clough decide che 2 reti in 19 partite non valgono la candela e lo sbologna all’Orient (ora Leyton Orient), in Second Division, per 100.000 sterline, un record a Brisbane Road. Bowles ci resta un anno, il tempo di segnare 7 volte in 44 partite. Poi sposa (nell’agosto ’81) l’amante di lunga data Jane Hayden e in ottobre scende in 3rd firmando per il Brentford di Fred Callaghan, un po’ come se ai tempi d’oro «Paul Gascoigne fosse andato allo Swansea City» si disse e scrisse. Bowles, che ha perso un po’ lo spunto ma non la classe, vive tre stagioni da re (16 gol in 81 gare) prima di ritirarsi, ormai 35enne, nel febbraio ’84.
Ancora oggi, al Griffin Park ricordano l’ilarità da lui suscitava quando – frustrato per il passaggio orribilmente fuori misura indirizzatogli dal suo scarsissimo terzino destro – si piegò mimando il gesto di portarsi le mani agli occhi come fossero un binocolo per vedere dove diavolo gli avessero lanciato il pallone. Ma a parte le sue prodezze, soprattutto quelle nel QPR più forte di sempre – un mirabile mix di gioventù (Bowles, Parkes, Clement e Francis) e di esperienza (McLintock, Webb e Hollins) – trascinato dai suoi 70 gol in 255 partite di campionato, 97 in 315 in totale, Bowles verrà per sempre ricordato anche per gli eccessi – ipertollerati, al QPR, dalla morattiana presidenza di Jim Gregory’s – fuori del campo. «Ho fatto il pieno con vodka (una bottiglia al giorno), tonica, scommesse e sigarette (fino a 50, ma forse 80, al dì). Ripensandoci, devo aver esagerato con la tonica». I tre divorzi («cerco di raggiungere Mickey Rooney», leader di categoria con 8 mogli), l’ultimo da Diane, conosciuta nel ’94, dalla quale ha adottato i figliastri Zoe e Tommy, le frequentazioni poco raccomandabili (tra cui «un truffatore di professione la cui specialità era vendere agli irlandesi cavalli che neppure esistevano») e sfociate in arresti (uno come sospettato di tentata rapina), le soste dai bookmakers prima di mettersi in fila per il sussidio di disoccupazione o le “fughe”, già in tacchetti, calzoncini e maglia numero 10, fino a 15’ dal fischio d’inizio, il finto ritiro – venduto in esclusiva per 500 sterline per il supplemento domenicale di un quotidiano – e smentito due giorni dopo il servizio fotografico, i patetici tentativi come assistente allenatore (un annetto al Brentford di Dave Webb, suo ex compagno ai Rangers, e due settimane al QPR), le esibizioni-choc in tv («Non esiste persona peggiore per rappresentare il calcio in televisione» disse nel ’76 l’amico ed ex compagno di squadra Paul Hince dopo la storica figuraccia di Stan a "Superstar" della BBC), il linguaggio scurrile che gli costò il posto di opinionista a Sky, gli articoli come esperto di scommesse (con le quali ha perso una fortuna), le baruffe con gli arbitri: Bowles è stato e ha provato di tutto e di più, ma se oltre vent’anni dopo che ha smesso di giocare si stampano magliette con la sue effigie, viene eletto miglior Ranger di sempre (davanti a Marsh, obvious) e Dominic Masters ci scrive su una canzone ("Stan Bowles" per The Others), un motivo c’è. E si chiama Stan The Man. Ozioso chiedersi che cosa avrebbe fatto con un’altra testa. Come ha detto Frank Worthington, che della categoria fu uno dei massimi esponenti con Marsh, Tony Currie, Charlie George, Alan Hudson e Peter Osgood, «i rimpianti fanno parte della leggenda, parte dell’essere un maverick». Poco, ma sicuro.
24 comments
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